CHI SIAMO

Second Open Space Teatro presenta la seconda edizione bloggistica del laboratorio di scrittura critica focalizzato sugli eventi della stagione 2009 del Centro di promozione teatrale La Soffitta e anche su altri appuntamenti scenici.

S.O.S. come acronimo di Second Open Space, imperiodico foglio online scritto da studenti della Laurea Specialistica in Discipline Teatrali dell'Università di Bologna, che si cimentano con l'analisi e il racconto dello spettacolo, sotto la guida di Massimo Marino.
S.O.S. come segnale, allarme, chiamata all'intervento, alla partecipazione e alla collaborazione per creare e accrescere gli sguardi sulla realtà teatrale attraverso cronache, interviste, recensioni, approfondimenti.
S.O.S. come piattaforma online di soccorso al pensiero aperta a commenti, suggestioni, contributi esterni da parte dei lettori.

Buona navigazione!

DIRETTORE Massimo Marino

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA Tomas Kutinjac

WEB Elisa Cuciniello

SCRIVONO Emilia Biunno, Elisa Cuciniello, Irene Cinti, Sandro Ghisi, Tomas Kutinjac, Stefano Serri
- e per la rassegna DiversaMente - Alessandra Cava, Alessandra Ferrari, Antonio Raciti

ATTENZIONE! Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal DMS dell’Università di Bologna

lunedì 7 dicembre 2009

DALL'OSSESSIONE DEL MANCAMENTO

Incontriamo Maurizio Lupinelli che ci parla del suo ultimo lavoro, L'incontro mancato, un lavoro sull'Amleto di Shakespeare nato proprio dall'incontro, appunto, tra gruppi di attori - con disabilità e non - provenienti da realtà diverse: la realtà di Olinda a Milano e quella di Armunia a Castiglioncello.
Quello che emerge, tra le righe del racconto, è una certa 'fatica' oltre che passione. Fatica nel cercare di spiegare, a chi non l'ha vissuta, un'esperienza troppo importante e profonda per essere tradotta in parole. Le sceglie con cura, le parole, con la delicatezza di chi tiene in mano qualcosa di prezioso.

Da dove nasce la scelta di fare teatro con attori disabili?
«Per rispondere a questa domanda devo partire da molto indietro. Sono cresciuto a Ravenna, nell'unico quartiere popolare della città. Ho iniziato a lavorare da solo senza sapere cosa fosse il teatro perché avevo capito che l'unico modo espressivo per rapportarmi alla società era il linguaggio del teatro, anche se non sapevo cosa volesse dire perché non ho fatto nessuna scuola, non ci credevo. Perciò ho iniziato un percorso da autodidatta, agendo in maniera del tutto naturale e spontanea, assecondando l'interesse che da sempre ho per l''alterità'. Il teatro stesso è 'alterità'.
Erano gli anni '80. A Ravenna ho avuto un primo contatto con il Teatro delle Albe - compagnia fondata nel'83 - e con Marco Martinelli con cui ho collaborato per sedici annni, a partire dagli anni Novanta. Con lui ho fondato la famosa 'non scuola del teatro'.
Proprio in quel momento, parallelamente al mio lavoro d'attore, ho cominciato ad entrare più nello specifico del mio interesse per la diversità, elaborando dei progetti a contatto con alcune realtà di disagio vero e proprio. Ho iniziato in un piccolo centro di disabili con un progetto sul Woyzeck.
Poi, a Lerici, ho intrapreso un altro percorso (dal '99) con un gruppo che va avanti tutt'ora. C'è stato un primo laboratorio di lavoro su Madre Coraggio e poi sul Woyzeck fino ad arrivare, tre anni fa, al Marat Sade dove in scena c'erano sessanta ragazzi portatori di handicap.
Il mio interesse per le alterità, col tempo, è diventato sempre più forte. Ho continuato in questa direzione, spingendomi sempre più in profondità, portando il limite sulla scena, ma non per usarlo! Non come provocazione! Mi dà fastidio quando si usano le persone: quando si spinge il disagio al limite per metterlo in mostra, per creare uno shock emotivo alla gente 'normale'.
Porto il limite alle estreme conseguenze perché è lì, nella tensione che si crea, che mi trovo a mio agio. L'alterità profonda, per me, è 'rischiare un pezzo di vita con loro'. E' una sfida che mi porta a scoprire qualcosa che non so. Il buon teatro è quando scopri mondi nuovi. Molte volte capita di andare a teatro ed annoiarsi perché non si scopre nulla. Lavorare con queste persone significa invece incontrare un mondo che ha una propria forza.
Dopo la mia fuoriuscita dalle Albe, nel 2006, ho fondato una nuova compagnia, con l'attrice veneta Elisa Pol. Stiamo portando avanti questo discorso, lavorando in particolare sui testi di Antonio Moresco, che io definisco 'il mio Artaud', per creare spettacoli dove centro dell'attenzione è il corpo dell'attore, ciò che in questo periodo a teatro si vede sempre meno.

Come nasce lo spettacolo di stasera?
«Lo spettacolo di stasera è nato da un incontro vero, da un lavoro su Amleto iniziato a novembre a Milano e portato avanti parallelamente coi ragazzi di Castiglioncello. Durante questo progetto, per un anno, ho trascorso una settimana al mese a Milano, una settimana al mese a Castiglioncello e poi, alla fine, ho messo insieme i due gruppi: i ragazzi toscani sono andati a Milano, i ragazzi di Milano sono andati in Toscana e abbiamo unito le due esperienze, per approdare a questo lavoro che io chiamo Amleto! con un punto esclamativo perché chiaramente di Amleto c'è ben poco.

Cos'è l''incontro mancato'?
Amleto! L'incontro mancato. Il 'mancamento'. Io ho l'ossessione del 'mancamento', che in realtà è l'incontro vero. E' l'incontro tra due figure da cui non sai cosa succederà: può nascere una scintilla come può non succedere nulla. Quel limite per me è fuoco. E' l'inciampo.
Amleto è un testo pieno di 'mancamenti', di relazioni mancate, come quella portante tra Amleto e suo padre, ma anche quella tra Polonio e sua figlia che, troppo tardi riconosciuta, viene seppellita. O quella del dialogo distorto tra un medico-paziente e una gallina ragionante nel suo incedere schizofrenico.
"Se l'occhio ha una visione spaventosa, il cuore s'arresta e rimane sospeso!" dice la citazione che ho inserito nella presentazione. Questo per me è il più grande 'mancamento'.

In questi giorni, in occasione della rassegna, si è discusso molto sul valore più o meno 'terapeutico' del cosidetto 'teatro sociale' in rapporto al valore artistico degli spettacoli. Qual è la tua presa di posizione?
Non me ne frega niente della socialità. Io parto dal presupposto che quello che stiamo facendo insieme a questi ragazzi è un'opera. Se poi ci sono dei miglioramenti relazionali, psicofisici e tutto il resto questa è solo una conseguenza secondaria. Ma non è l'obiettivo. Se l'obiettivo è fare un atto creativo allora questo implica un rapporto crudo e onesto, che genera arte ma anche relazione, ed è un pezzo di vita. La pratica teatrale non è terapia: è vita!
La vita che loro hanno fuori purtroppo molte volte non è vita. E' un'esistenza 'impacchettata', dai centri che gli offrono delle 'attività da passatempo' che servono solo a tenerli buoni.

Ricordo una frase di Jean Cocteau in cui egli diceva che il teatro nasce da una mancanza, da un vuoto. Credi che questo abbia qualcosa a che fare col rapporto, in teatro, tra arte e handicap?
Io dico di si. Mi ricordo una frase di mio nonno, quando era un contadino. Una frase che, in teatro, avrebbe potuto dire Peter Book. Lui, durante le pause dal lavoro, si sedeva sotto il filare della vigna e se ne stava lì, per un'ora, col suo tozzo di pane, a guardare. Io, che ero un bambino, gli chiedevo perché se ne stava lì a fissare il vuoto e lui rispondeva che voleva guardare, voleva riempirsi gli occhi.
Siamo noi che abbiamo smesso di vedere l'alterità. Siamo noi che, ormai, abbiamo dato tutto. Molte persone con cui lavoro 'non hanno la testa' ma non importa perché l'arte non è qua (indica la testa) ma è qua (indica la pancia) e qua (il cuore).

Qual'è il tuo 'metodo' di lavoro?
Non ho un metodo. Non c'è un metodo. Bisogna partire dall'essere. Bisogna saper ascoltare. Ascoltare molto! E ci vuole sensibilità. Bisogna far sentire a questi ragazzi che li tratti per quello che sono, che non li compatisci. Dev'esserci un rapporto libero da questi pregiudizi. Un rapporto di fiducia, per mezzo del quale loro sentono di poter essere finalmente dei soggetti, ai quali il teatro mette a disposizione i mezzi e gli strumenti espressivi per aprire delle possibilità altrove negate. Questo è un lavoro contro l'ipocrisia, contro la commiserazione.
La cosa che mi da fastidio è quando si guarda a questi spettacoli come ad uno 'spettacolo di sfigati', con un atteggiamento di pietà. Io dico sempre a questi ragazzi: 'non sarete mai attori ma quello che stiamo facendo ha un valore, stiamo costruendo un'opera'.

Hai lavorato a contatto con diverse realtà, hai avuto a che fare con varie tipologie di disagio. Quale confronto ha costituito per te la sfida più difficile e più stimolante?
Non c'è n'è uno in particolare. Cambia il nome, cambia che hai delle persone diverse, ma la tensione è sempre la stessa! La direzione è sempre quella! Verso l'alterità. Fa tutto parte di un unico percorso. Anche questo lavoro, quest'opera che presentiamo all'interno della rassegna, non è 'un altro spettacolo' di Maurizio Lupinelli ma il proseguimento logico di un percorso, quello fatto fin'ora. Un percorso che passa da qui, da questo spettacolo, per poi continuare.

Alessandra Ferrari

LA BELLEZZA DELLO SQUILIBRIO

Abbiamo incontrato il Regista Alessandro Fantechi, direttore e fondatore di Isole Comprese Teatro, compagnia che si caratterizza per il suo lavoro di ricerca e sperimentazione, attraverso un teatro fatto di non-attori che coinvolge categorie sociali emarginate.

Come è nata Isole Comprese Teatro?
«Mi sono formato alla scuola Galante Garrone, pensando di fare l’attore, ho avuto diverse esperienze teatrali, dal teatro di strada al cabaret, sono stato addirittura stato a Zelig. Poi insieme a Elena Turchi, nella periferia fiorentina di Brozzi, abbiamo dato vita a un teatrino che negli anni è diventato un piccolo spazio di sperimentazione, un luogo per accogliere esperienze di carattere sociale, con laboratori che coinvolgevano i giovani della zona. Nel 1998 ho avuto la proposta di un laboratorio per ragazzi tossicodipendenti inseriti in comunità terapeutica. Non conoscevo questa realtà ed è stato un grande impatto, emotivo e formativo, che mi ha spinto al passaggio da attore a regista. Successivamente siamo stati invitati al teatro Metastasio, e in quell’occasione abbiamo dovuto mettere in scena lo spettacolo in modo professionale, cosa che ci ha imposto di costruire una compagnia stabile con i ragazzi del laboratorio.
Cercando il nome, un napoletano ci suggerì Isole Comprese proprio per l’idea di comprendere storie isolate, metaforicamente. È nata così la compagnia e l’esigenza fondamentale era di lavorare con non-attori, forse perché per me diventava più facile il lavoro di regista. Avevo trovato nei tossicodipendenti molta disponibilità, ed è la stessa ragione per cui oggi lavoriamo con i ragazzi down, come con il nostro Giovanni Pandolfini che non ha la fidanzata, non ha il telefonino, non ha proposte da altre compagnie ed è quindi sempre disponibile a condividere un progetto, anche se ci sono i lati faticosi della ripetizione, problemi attoriali, o dell’organizzazione del loro tempo che ci dobbiamo assumere come fossimo degli educatori. Non c’è mai stata un’esigenza di tipo sociale o terapeutico, ma solo artistico. In un primo momento quello che accadeva in scena aveva alla base l’idea di una trasformazione, di un percorso in cui persone disagiate incontravano il teatro per la prima volta, questo è un fatto molto interessante perché dà vita a un incontro nuovo, puro, un impatto fortissimo in cui affiorano degli sprazzi di verità, di vita vissuta, che è quello che a me interessa: grande fragilità, ma anche molta verità.
Ricordo che una volta c’era da fare la parte di un soldato che doveva ballare, ma un soldato non deve saper ballare e quindi scelsi come interprete un ragazzo che non aveva mai ballato. Vennero fuori delle fratture, delle imperfezioni, che sono quelle che danno il senso della realtà, nello squilibrio c’e questa bellezza».

Quando e come ha incontrato Filippo Staud? Come è nato il legame artistico con Pippo Bosè?
«Secondo la logica degli incontri, nel laboratorio che il giovedì tengo per i ragazzi del centro diurno di salute mentale Fili e Colori, è arrivato questo strano personaggio che io non conoscevo e che non avevo mai visto, dicendo: Mi chiamo Pippo Bosè, canto Super man e le canzoni di Miguel Bosè, sono famoso, sono un showman professionista con marchio Siae. Questa cosa mi ha incuriosito, quindi ho chiesto, tra le mie conoscenze, se qualcuno sapeva chi era e in molti ne avevano sentito parlare o l’avevano visto esibirsi. Sono andato su internet a cercare informazioni ed ho scoperto che c’erano molte persone che l’avevano incontrato, che lo seguivano, molti che lo stimavano: aveva dei fans e nella famosa Enciclopedia dei Matti era annoverato come il migliore tra questi! Circolavano anche delle leggende metropolitane su di lui, qualcuno sosteneva che prima era “normale” e poi cascando da un’impalcatura aveva perso la ragione.
Ripercorrendo così la sua storia, ho trovato un grosso legame con la mia, con gli anni '80 quando anche io facevo l’artista di strada in piazza Signoria a Firenze. Non averlo mai conosciuto risultava come un anello mancante nella mia storia teatrale, mi sentivo debitore nei confronti di questa persona.
Ho deciso di verificare le competenze di Pippo facendolo esibire al centro diurno, ma questo rapporto e la voglia di creare qualcosa insieme straripavano dalle attività del centro, che sicuramente non avrebbe potuto contenere un progetto più ampio. Sentivo il bisogno di fare di più, abbiamo così deciso di creare uno spettacolo.
Isole Comprese Teatro produce uno spettacolo solo quando succede qualcosa, quando incontriamo una storia che ci fa nascere l’esigenza di raccontarla. Infondo nessuno ci commissiona spettacoli, non abbiamo scadenze di rassegne o produttori. Ci siamo quindi chiesti se Pippo era in grado di memorizzare un testo, se fosse disponibile a lavorare, se poteva spostarsi per una tournèe e abbiamo fissato uno data a Cagliari, nel dicembre 2008, ospitati da un teatro sociale della città. È così che abbiamo iniziato a lavorare su Amleto».

Io e Amleto: qual è l’affinità con Shakespeare e quale è la poetica dello spettacolo?
«Mi son detto: diamogli un titolo riconoscibile, rassicurante, un’opera che la gente vede volentieri. Poi in un certo senso l’Amleto corrisponde anche a Filippo, con la sua situazione familiare che poteva essere amletica. Lui è un Amleto degli anni '80. Isole Comprese aveva già lavorato con questo testo in altre situazioni di disagio, constatando che l’atmosfera dei testi di Shakespeare si adatta perfettamente.
Abbiamo cominciato il lavoro sul testo e Pippo ha dato l’input, cioè che l’Amleto non lo voleva fare, non gli interessava, ricordo che mi disse: Amleto mi sta sulle palle, è un libro noiosissimo!
Così è venuto fuori un Amleto di vita, più che l’Amleto di Shakespeare. Nei venti minuti di video, che vengono proiettati durante lo spettacolo, Pippo interpreta alcuni personaggi del dramma con un linguaggio goliardico, sboccato, mentre in scena racconta la sua vita che, come dice Macbeth, “è una favola narrata da un idiota, tutto rumore e furia che non significa nulla”, un povero scemo che si agita sul palcoscenico, questo è lui, una vita fatta di niente, che pare epica ma in realtà non lo è, dove non c’è differenza tra felicità e tristezza e gli eventi si assomigliano. È una situazione dubbiosa, che riguarda l’essere.
Questo progetto è stato successivamente allargato perché abbiamo girato un documentario che uscirà il prossimo anno, è diventato anche una mostra perché Pippo scrive dei diari che sono pubblicati, ha una scrittura straordinaria, lui scrive sempre, e la traduzione di questi diari potrebbe diventare un’opera letteraria perché rappresentano un mondo eroico visto attraverso la televisione, con gli occhi di George Clooney e dei politici e con tutta la tristezza di una situazione di solitudine che lui sperimenta quotidianamente.
Portiamo in scena un’epopea vera, la storia di un personaggio che si è esibito allo stadio, che è andato a cantare a San Remo e che sforna inaspettatamente una professionalità straordinaria acquisita in tanti anni di teatro di strada. Pippo è molto comunicativo, non c’è teatro che tenga, lui quando fa spettacolo aspetta eccitato la fine per poter abbracciare il pubblico, per stabilire un contatto, riportandoci a un teatro popolare adatto a tutti, uno spettacolo divertente e tragico».

Perché l’uso del video nello spettacolo?
«Perché Pippo buca lo schermo e a me piace molto lavorare sull’immagine e sulla musica. Il video ci dà la possibilità di avere sempre una sicurezza, una fedeltà straordinaria, perché non subisce variazioni. Sta diventando una costante in quasi tutti i nostri lavori perché dà la possibilità alle persone di raccontare la loro verità sotto forma di intervista. In realtà stiamo progettando per i grandi teatri uno spettacolo dove in un primo momento verrà proiettato un documentario di circa cinquanta minuti e poi nella seconda parte metteremo in scena Io e Amleto».

Pippo Bosè – Filippo Staud. Che rapporto hanno tra loro?
«C’è un rapporto di amore-odio. Filippo Staud, la parte “normale”, sta a letto fino alle cinque, sta con la madre. Poi c’è Pippo Bosè, che è il suo alter ego, un personaggio completamente diverso da Filippo. È un provocatore, un intruso, ma è anche un conformista, gli piace vivere agiato, mangiare bene, gli piace la gente vip, rappresenta un uomo comune, l’italiano medio. Filippo attraverso il suo personaggio ha trovato un modo per fare amicizia, per incontrare la gente, e in questo senso si è salvato dando un senso alla sua vita, sa che è più conveniente essere Pippo Bosè, perché la realtà di Filippo Staud è miserabile».

Antonio Raciti

IL TEATRO DELLA PAROLA

Abbiamo incontrato la regista Monica Franzoni che, insieme ai suoi attori-detenuti, è "evasa" (solo per qualche ora) dall'Ospedale Psichiatrico Giudiziario per poter mettere in scena Aspettando Godot, L'ergastolo bianco, un intenso dialogo a più voci tra i personaggi di Beckett e i detenuti dell'ospedale, tra l'attesa straziante e la speranza di una libertà che forse non arriverà mai.

Come si incontrano, artisticamente, Monica Franzoni e Riccardo Paterlini?
«Da dieci anni porto avanti un progetto nell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario, un laboratorio in cui lavoro sul corpo. Faccio anche un laboratorio permanente di teatro, ma in quell'occasione il corpo non lo uso. Questa cosa potrebbe risultare curiosa, ma è una scelta frutto di sperimentazioni. Inizialmente avevamo esplorato, come una delle possibili strade, il lavoro corporeo, ma questo scompensava completamente i pazienti. Loro hanno delle grandi difficoltà di comunicazione e di relazione. Il corpo non era il primo strumento da poter utilizzare.
Riccardo Paterlini, essendo a conoscenza del mio laboratorio permanente di teatro all'interno dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario, ha fatto domanda per poter partecipare attraverso un tirocinio della Facoltà di Lettere dell'Università di Parma.»

Come lavora a livello pratico con attori che hanno un duplice disagio: quello della malattia mentale e quello fisico, di carcerati?
«Lavoro molto con la parola, ho constatato che aiuta a contenere le loro emozioni che spesso sono palline vaganti che girano nel loro corpo e nella loro mente. La parola gli permette di interloquire con gli altri. Quindi stimolare la parola e, attraverso questa, stimolare la comunicazione con l'altro, indagare le motivazioni per cui si è in quel luogo, in quel tal giorno, aiuta pian piano a ricostruire delle dinamiche relazionali che un malato mentale, ma soprattutto il malato rinchiuso, non riesce ad affrontare. Noi lavoriamo in una situazione molto particolare perché abbiamo ragazzi che vivono in una cella grande poco più di uno sgabuzzino. Condividono questo spazio molto ristretto, di massimo nove metri quadri, con altre due persone patologiche e quindi gli schemi difensivi sono proprio quelli di rinchiudersi in se stessi, cosa che sarebbe già portata dalla malattia. Hanno commesso un crimine e c'è una sofferenza molto forte dovuta al fatto di trovarsi senza niente, con la consapevolezza di essere stati la causa della propria distruzione. Sofferenza per i figli, rimasti soli, e spesso dati in adozione perdendo ogni diritto su di loro. Gli viene tolto tutto.
Ci sono delle vite straordinarie qua dentro. Persone che la malattia ha divorato pian piano. Sono malattie a volte impercettibili, e senza accorgersene capita di alzarsi una notte e nell'oscurità sterminare la propria famiglia.
L'approccio che utilizziamo è proprio quello di costruire un gruppo di auto-aiuto, una specie di famiglia. Il gruppo è composto di persone che si conoscono e che condividono insieme un progetto, persone che nei momenti di difficoltà possano aiutarsi e sostenersi tra loro. La motivazione dominante che li tiene uniti è quella di uscire fuori dalla realtà dell'Opg per raccontare la condizione che vivono quotidianamente, sempre identica.
Iniziamo quindi scrivendo il testo tutti insieme, individuando il tema da trattare. Per esempio quest'anno era il sovraffollamento, la condivisone degli spazi, ma soprattutto l'attesa.
Abbiamo passato un anno di vuoto completo, dove c'era la gente che si ammucchiava una sopra l'altra e non aveva possibilità di fare niente, per ogni cosa bisognava aspettare e i tempi si prolungavano all'infinito. Per esorcizzare questo problema è servito parlarne molto.
La fase successiva è quella un lavoro di integrazione del materiale delle discussioni con un testo noto e la trasformazione in un unico linguaggio. In questo lavoro letterario Riccardo è molto bravo».

È quindi un percorso che si può definire terapeutico? E che competenze ha in merito?
«Si, da quest'anno è stato finalmente riconosciuto come un progetto terapeutico.
Io ho sempre fatto teatro e l'ho sempre usato, con i ragazzi difficili, come strumento per fargli comunicare le proprie emozioni. Faccio questo mestiere da trent'anni, vengo da una famiglia d'arte, dalle compagnie guitte dove si faceva tutto. Parallelamente però ho deciso di formarmi come educatrice. Il mio percorso di vita e quello professionale hanno viaggiato sullo stesso binario».

Quali fili legano i personaggi di Beckett ai vostri ragazzi del laboratorio Teatrale dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario?
«Rappresentano il loro modo di vivere, la loro condizione quotidiana. Aspettando Godot ci ha fornito il linguaggio e le dinamiche giuste. L'abbiamo in parte riscritto, in scena vedremo dieci Vladimiro e Estragone, non due. Ci saranno anche Lucky e Pozzo. La loro vicenda è simbolo dell'arrivo del "nuovo giunto", l'ultimo arrivato, quello che viene portato direttamente dal tribunale, caricato su un "cellulare" (che inviterei a visitare in una delle feste della polizia penitenziaria, per farsi un idea). Una gabbia chiusa, completamente buia, dove le persone vengono ammanettate e in uno spazio di un metro per uno e si fanno viaggi che durano anche sei ore. L'opinione pubblica si interessa di tutto, ma su queste questioni non c'è ancora la sensibilità che dovrebbe esserci. Ho voluto far conoscere questo drammatico mezzo di trasporto tramite lo spettacolo, ma devo ammettere che ho cercato di farlo con la maggior leggerezza possibile, non ho voluto sollevare polemiche.
Tornando ai personaggi, Didi e Gogo sono gli ospiti dell'Opg che in tre momenti vedremo nei letti di contenzione, che ancora esistono e vengono usati. Ma spesso sono gli ospiti a chiedere di essere legati quando stanno molto male. Il letto è una cosa che sembra incatenarsi a loro. Quando nello spettacolo si racconta di un internato che è rimasto a letto tre anni ci sembra un'assurdità, ma questa storia è vera.
Loro stanno sempre a letto. Io ho fatto anche l'esperienza del carcere e la differenza è che lì i detenuti fanno di tutto per uscire, in Opg invece li devi tirare fuori perché fanno di tutto per lasciarsi morire a letto. Questa è la grande differenza».

Cosa le dà il lavoro con queste persone?
«Spesso dico che vado a lavoro per riposarmi. Mi danno indietro una grande energia positiva, un grande onore, un grande rispetto, una grande condivisione delle cose. Io esco con loro e sono tranquilla. Per portare lo spettacolo al festival DiversaMente sono uscita con dieci ricoverati. Solitamente possono uscire solo singolarmente e con un volontario maschio. Non li danno in "custodia" alle donne»!

Come ha fatto a far uscire dieci malati psichiatrici che hanno commesso dei crimini e stanno in un ospedale giudiziario?
«Onestamente non lo so, è una magia. Con loro lavoro molto sulla motivazione, sulla condivisone delle cose, spiego come devono comportarsi. Sono consapevoli che se succede qualcosa quest'avventura finisce, ma c'è una grossa fiducia reciproca. Loro sanno che abbiamo una corresponsabilità.
L'istituzione mi conosce bene, mi appoggiano e riesco quindi a permettermi di fare tutto questo, ma ho anche l'appoggio di molti agenti volontari che ci accompagnano. Ci sono anche delle persone straordinarie fra le guardie, molto distanti da quell'immagine di Pozzo che vediamo nello spettacolo. Gente che si è reinventata una professionalità e che lotta contro un'istituzione che tende sempre a spersonalizzare il loro ruolo. Anche all'interno della struttura c'è dinamismo. Ci sono agenti che usano la loro umanità e la loro attenzione per tirarli fuori, per convincerli a combattere contro la malattia e la prigione. Agenti che d'estate cercano di rendergli una parvenza di normalità portandogli le pizze. Ottanta pizze! Ma è sempre una lotta con l'istituzione e il regolamento che ti costringe a stare fisicamente distante, a non mescolarti con i ricoverati. Questo significa per loro non avere nessuno contatto fisico, non vengono toccati, non vengono abbracciati».

Lei ha paura a lavorare a stretto contatto con i detenuti dell'Opg?
«Io insegno loro ginnastica, nella cappella, l'unico spazio disponibile che abbiamo. Mi sdraio con loro, faccio gli esercizi con loro, li tocco, ci scherzo. Credo che ci siano molti pregiudizi e troppe paure. L'Opg è un posto che io amo, e non ho paura. Lì dentro i furbi non ci sono, c'è della gente che soffre perché ha sbagliato facendo anche cose terribili, e c'è anche gente che non ha fatto niente. Gente che ha rotto il finestrino di una macchina e che è solo stata sfortunata».

Progetti per il futuro?
«Ci stiamo già pensando, anche se siamo abbastanza impegnati. In questo momento giriamo scuole e teatri con tre spettacoli differenti. Il nuovo progetto dobbiamo ancora imbastirlo, ma pensavamo a un Pinocchio in una versione tutta nostra, fatto con i pupazzi, o con le marionette.
Questo perché un agente, una persona davvero speciale, ha preparato insieme ai ragazzi un presepio che verrà inaugurato l'8 dicembre a Reggio Emilia in piazza Casotti. Si sono scoperte in quest'occasione delle manualità straordinarie. Vorremmo sfruttarle! Cerchiamo sempre di utilizzare e incrementare le risorse che abbiamo. Per esempio c'era un ragazzo che amava cantare, così abbiamo istituito la serata pianobar al sabato sera. Si cerca sempre di ottimizzare le forze che sono presenti all'interno dell'Ospedale, è questo il progetto vero e proprio»!

Antonio Raciti

...QUALCOSA DI DIVERSO

Incontriamo Lucia Vasini, regista dello spettacolo Da 'Aspettando Godot'... qualcosa di diverso, frutto del laboratorio teatrale realizzato con gli ospiti e gli operatori dei Centri Diurni e delle Comunità del Dipartimento di Salute Mentale dell' Usl di Piacenza. Il progetto, avviato nel 2004 grazie a Teatro Gioco Vita, è cresciuto con la costituzione di una Compagnia teatrale, denominata "Diurni e notturni". Un progetto che, ci racconta la Vasini, era un suo sogno da sempre, reso possibile dall'amicizia e dal suo rapporto di fiducia con il teatrante e organizzatore di teatro Diego Mai.

In che modo l'incontro e il lavoro con gli ospiti dei Centri Diurni e delle Comunità di Riabilitazione ha cambiato la tua idea di teatro?
«In realtà credo sia avvenuto proprio l'inverso: è stata l'idea di teatro che già avevo e che ho sempre avuto a portarmi a incontrare questa realtà».

Puoi spiegarti meglio?
«L'idea è che ognuno ha delle capacità, un talento personale che lo rende diverso da chiunque altro e, in qualche modo, unico. Si tratta solo di individuare questo talento, quello di ognuno, e metterlo in evidenza. Non parlo di talento dal punto di vista tecnico. Io ho fatto l'accademia del Piccolo Teatro e ho studiato il mestiere teatrale in senso 'classico'. Ho incontrato personaggi importanti legati a questa tradizione, come Vittorio Gassman, Massimo Dapporto. Ma nello stesso tempo, ho seguito sempre quello che sentivo e spesso ho imparato osservando proprio quegli attori, meno conosciuti che però, in realtà, hanno fatto la storia del teatro. Uno di loro era Checco Rissone, che lavorava con Strehler e seguiva il metodo della 'recitazione naturale', quello - per intenderci - di Stanislavskij e dell'Actor studio, che negli anni '50 era fortemente innovativo. Io ho sempre saputo che non volevo recitare in modo 'finto', impostando la voce con il diaframma etc.
Per questo ho cominciato a lavorare con Paolo Rossi, un attore che 'veniva dalla strada', che non aveva fatto nessuna scuola. Paolo diceva di sentirsi inadeguato per il mestiere dell'attore perché non aveva le basi tecniche. Ma io non ero d'accordo perché credo che la tecnica non stia alla base della recitazione ma che debba venire in un secondo momento, a supporto del talento di una persona, che è una cosa diversa. Il talento è qualcosa che viene prima e ha a che fare, appunto, con quelle potenzialità di cui parlavo all'inizio. Potenzialità dal punto di vista umano. Perché quello che conta è il cuore».

Sarebbe corretto dire, a questo punto, che proprio la tua necessità di fare questo processo a ritroso, di 'regredire' al grado 'zero' della teatralità è ciò che ti ha portato a fare teatro con le persone che hanno dei disagi psichici?
«Sì. Ho cercato di liberarmi dalla tecnica e mi ci sono voluti tre anni per riuscirci. Paolo Rossi in questo mi ha molto aiutato».

Qual è il vostro metodo di lavoro attoriale?
«Il metodo che utilizziamo è quello del canovaccio e delle azioni, legato alla scuola della Commedia dell'Arte e, in qualche modo, al lavoro di ricerca che ho fatto per vent'anni con Paolo Rossi e Giampiero Solari».

In che modo, nel tuo lavoro, la 'follia' aiuta o si lega alla creatività?
«Un attore, di norma, lavora sempre nella follia. Lavora nel Sé, che è proprio la sede dell'area creativa. Ci sono attori 'sani' che sono letteralmente impazziti facendo teatro perché lavorare con il Sé è pericoloso. Nell'inconscio, come sappiamo, ci sono sia il bene che il male. Ciò che ci aiuta e ci 'salva', a teatro come nella vita, è la consapevolezza.
La cosa che possiamo fare insieme a queste persone è creare consapevolezza. In questo il palcoscenico aiuta: nella vita quotidiana tutti siamo attori ma non abbiamo consapevolezza.
Quando si parla di 'magia' nel teatro è proprio questo: non è terapia e nemmeno arte, è consapevolezza. Se consideriamo poi che la distinzione oggi non è più tanto quella tra sani e malati quanto quella, forse, tra malati mascherati e malati dichiarati, viene fuori che, paradossalmente, sono i 'matti' - ovvero quelli che dichiarano un disagio e si curano - coloro che hanno più consapevolezza».

Ti viene in mente un aneddoto, riferito a questo concetto?
«C'è un nostro attore, Marco, che all'inizio, per due o tre anni, non parlava; e quando lo faceva diceva delle cose illogiche a cui io, inizialmente, non ero preparata. Successivamente, quando è salito sul palco, ho capito che lui era consapevole di avere dei pensieri illogici e se e vergognava. Per questo motivo preferiva non parlare. La svolta decisiva è stata quando, lavorando sull'improvvisazione, si è sentito libero di dire tutto quello che voleva. E' stato allora che il ghiaccio si è rotto. Nello spettacolo di questa rassegna, non a caso, lui interpreta Samuel Beckett, l'autore del testo, che resta presente in scena ed interviene, a sua discrezione, per rivolgersi agli attori. E' perfetto. In questa situazione lui è perfetto. Ed è questo il nostro lavoro: valorizzare le possibilità e le doti di ognuno in modo che siano gli attori, donando i propri pregi e i difetti al personaggio che interpretano, a conferirgli personalità e autenticità. Il più delle volte sono loro ad avere l'intuizione giusta, a prendere la giusta direzione e noi non dobbiamo fare niente. E' un dono quello che ci fanno».

Perché avete scelto Aspettando Godot?
«Mi è sempre piaciuto Beckett e, in particolare, quando ero a scuola, ricordo che mi sarebbe piaciuto recitare in Aspettando Godot. Ho scoperto inoltre, ma solo in un secondo momento, che Beckett era malato e che proprio grazie al teatro è riuscito a curarsi. Quando poi ho visto l'Aspettando Godot di Iannacci e Gaber, dove Paolo Rossi interpretava Lucky, ricordo di aver notato che una cosa sola non funzionava: le pause. E allora ho pensato che proprio i 'matti' avrebbero potuto lavorare bene sulle pause, perché hanno il pensiero continuo, come dovrebbe averlo un attore. E allora, rifacendomi al discorso delle qualità di prima, ho ritenuto che questa scelta fosse per loro valorizzante».

Alessandra Ferrari

LA FOLLIA CREATRICE

Abbiamo incontrato Andreina Garella, regista di Tempo di smetterla, uno spettacolo nato dalla collaborazione tra Festina Lente Teatro (compagnia indipendente fondata nel 1997 dalla stessa Garella e da Mario Fontanini) e l'AUSL Dipartimento di Salute Mentale di Reggio Emilia, con cui dal 2003 la regista porta avanti un progetto di laboratorio teatrale rivolto agli ospiti e agli operatori dei centri e da cui nasce Stazioni di Confine, gruppo stabile aperto fatto da attori fuori dagli schemi che collaborano con Andreina Garella nella produzione di spettacoli.
La avviciniamo il giorno dello spettacolo, poco prima delle prove, mentre con i suoi collaboratori sta allestendo lo spazio.

Come ti sei avvicinata a questo tipo di teatro, perché l'hai scelto?
«Ho cominciato a fare teatro negli anni '70, a Trieste, dove sono nata, e dove Basaglia ha realizzato la più grande rivoluzione dei nostri tempi, aprendo le porte dei manicomi. L'ospedale psichiatrico di Trieste è stato aperto alla cittadinanza: uno spazio molto bello situato sopra una collina, a San Giovanni, con tanti padiglioni e persino un Teatro; un teatro vero e proprio all'interno dello stesso manicomio.
Il direttore dell'ospedale psichiatrico del'epoca, che succedette a Basaglia, aveva messo a disposizione degli spazi, assolutamente gratuiti, ad alcune realtà cittadine di vario genere, culturali e non, tra cui appunto noi, che eravamo una giovane compagnia teatrale.
Così abbiamo iniziato a lavorare in questo spazio: uno spazio bellissimo, con il parquet per terra, le vetrate enormi. L'unico vincolo che avevamo era quello di lasciare le porte aperte perché chiunque fosse libero di entrare. Nell'ex ospedale psichiatrico vivevano ancora degli utenti per così dire 'cronici', che erano stati rinchiusi per cinquant'anni, avevano subito lobotomia o erano senza famiglia. Queste persone, che potevano entrare ed uscire quando volevano, venivano ad assistere alle nostre prove e così, a poco a poco, si è creata una sorta di relazione. Una relazione continua che ha permesso una progressiva conoscenza.
Da quel momento in poi tutto è successo in maniera naturale. Ho lasciato Trieste per lavorare con altre compagnie di teatro. A Parma, dove per una serie di casualità mi sono trasferita, mi si è ripresentata la possibilità di lavorare a contatto con la psichiatria. Mi hanno proposto di portare avanti un progetto con il Dipartimento di Salute Mentale di Parma e poi, un paio di anni dopo, è nato quest'altro progetto con il Dipartimento di Salute Mentale di Reggio Emilia che dura ormai da sei sette anni. Potrei dire che in realtà la mia non è stata una scelta ma quasi un percorso obbligato, un naturale progressivo incontro con questa realtà» .

In che modo il 'prodotto spettacolare' vero e proprio di queste esperienze teatrali s'inserisce nel contesto teatrale contemporaneo, in rapporto al 'teatro professionale'?
«Da un punto di vista professionale economico ci sono sicuramente delle difficoltà e delle conquiste da fare, ma sotto il profilo artistico la nostra compagnia ha una sua identità precisa, conquistata in tanti anni di lavoro insieme, frutto di un percorso durante il quale abbiamo maturato una nostra poetica, un nostro modo di stare in scena, di comunicare. Tempo di smetterla, come gli altri spettacoli, non è il frutto di un'esperienza sporadica come può esserla un laboratorio: il nostro è un gruppo stabile e aperto, nel senso che alcuni attori sono con noi dall'inizio, da sette anni, mentre altri sono entrati successivamente. Ma c'è una linea di continuità nel nostro percorso, che ci ha permesso e ci permette di crescere insieme».

Quali sono le differenze, le specificità che hai voluto valorizzare e che costituiscono la vostra autonomia artistica?
«Io lavoro con le persone. Cerco di tirar fuori, di svelare il mistero che ognuno di loro ha. Il mistero che ognuno di noi ha dentro di sé. Lavoro sulla difficoltà. Tento di valorizzare le potenzialità che alcune persone hanno senza averne la consapevolezza, perché spesso sono nascoste dietro alla malattia. Lavoro su quello che la persona mi può offrire.
In questo spettacolo parliamo di follia proprio per andare oltre i luoghi comuni, per ribadire il nostro diritto di essere delle persone con delle fragilità e delle debolezze che devono essere non solo rispettate ma anche valorizzate. Esattamente quello che facciamo nel nostro gruppo, cercando di evitare - mi piace sottolinearlo - ogni forma di paternalismo. Non mi interessa sapere le patologie delle persone con cui lavoro. Io mi rapporto con loro umanamente e se ci sono delle difficoltà le rispetto, come loro rispettano le mie. Grazie a questa sorta di rispetto reciproco, presente all'interno del gruppo, anche le persone che inizialmente avevano più difficoltà sono riuscite, durante il percorso, ad andare oltre i propri limiti, a dare più di quello che apparentemente avrebbero potuto dare. E' questa la magia naturale che si crea facendo teatro e che non ha niente a che fare con la terapia psichiatrica» .

Qual è il tuo metodo di lavoro, il punto di partenza per la creazione di uno spettacolo?
«Non parto mai da un testo già esistente ma da un argomento, un tema che scegliamo di trattare, che abbiamo la necessità di trattare. Intorno a questo argomento poi si forma il progetto poetico.
Ogni spettacolo nasce da una necessità, da un bisogno. Solo dopo diversi anni, con Tempo di smetterla, abbiamo sentito la necessità di parlare di follia. Il trentennale della legge Basaglia, in realtà è stato solo uno spunto, un pretesto.
Non potrei fare uno spettacolo su commissione, portando in scena un testo dato a priori. Anche in questo caso, infatti, al di là dei riferimenti letterari, da Shakespeare a Zavattini, che ci hanno aiutato e guidato in questo percorso, la maggior parte del testo è nato da noi» .

Come nasce il testo? Che peso ha la componente letteraria nell'insieme dello spettacolo?
«Ci sono degli spunti drammaturgici legati all'argomento scelto, degli spunti letterari anche. C'è una drammaturga che ci segue e che fissa le parole sulla carta, man mano che nascono durante il percorso. Spesso sono gli stessi attori a fornire questi spunti che poi vengono trasformati in testo teatrale. Anche il corpo è fondamentale, la presenza fisica, il movimento. C'è moltissimo movimento nei miei spettacoli, moltissime immagini. Non c'è una componente che prevale sulle altre. C'è un progetto artistico condiviso che cresce sviluppandosi organicamente» .

In che modo lo spazio influenza la creazione dello spettacolo?
«Lo spazio condiziona fin dall'inizio la scelta poetica dello spettacolo: prima di tutto, quando lavoro mi immagino uno spazio. E' la prima cosa, sempre. Solo dopo riesco a riempirlo. Per quanto riguarda il luogo fisico della rappresentazione, invece, questa è la prima volta che lavoriamo in un teatro vero e proprio. E lo usiamo vuoto. Precedentemente abbiamo lavorato in luoghi diversi, fuori dal teatro, in corridoi, all'aperto anche. Ci piace lavorare in spazi suggestivi, che entrino a far parte del progetto, della drammaturgia. Lavoriamo sulle ambientazioni più che su scenografie vere e proprie. La scenografia come finzione è in contrasto con la verità dell'essere umano che portiamo in scena» .

Ritieni esista di fatto e sia necessaria la distinzione tra 'teatro professionale' e 'teatro sociale'?
« Non so se il teatro che faccio sia professionale o meno. Per me è teatro. Non mi interessano le classificazioni, non mi riconosco in tutte queste categorie. Io lavoro con attori non professionisti, persone che hanno dei disturbi. Ma con loro faccio teatro, proprio come lo farei con degli attori professionisti. Non faccio teatro terapia. Il teatro al suo interno ha in qualche modo questa sorta di magia per cui può essere anche terapeutico ma non mi pongo questo problema perché non è un ruolo che mi compete. Io faccio semplicemente teatro. Non saprei come altro definirlo».

Alessandra Ferrari

LA MATERIA MOLTEPLICE DELL'ESSERE UMANO

Il dirigibile, compagnia composta dai pazienti del Dsm di Forlì, presenta a Bologna il suo ultimo lavoro: Il cortile delle storie sospese. Michele Zizzari, fondatore e regista del gruppo, ci racconta la sua esperienza, cominciata molti anni fa nei quartieri disagiati di Castellammare di Stabia.

Qual è la storia della compagnia Il dirigibile?
«La compagnia è composta dagli utenti del centro diurno di via Romagnoli del Dipartimento di salute mentale di Forlì. Nel 2000 il Dipartimento decise di diversificare le attività e mi contattò per affidarmi un corso di teatro. Abbiamo cominciato con un gruppo di utenti di una quindicina di persone, pazienti affetti da patologie molto gravi. Il teatro ha una funzione magica e i ragazzi si sono appassionati immediatamente al lavoro. Inoltre l'attività fisica - la smobilitazione delle articolazioni, dei blocchi muscolari e nervosi - ha avuto sui pazienti un immediato beneficio. Nel giro di pochi mesi la loro situazione è cambiata e gli stessi operatori hanno notato una trasformazione importante. Dopo il primo anno di lavoro siamo stati in grado di mettere in scena la nostra prima opera, una rivisitazione de Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry. Questo spettacolo ha aperto immediatamente delle nuove prospettive. Così abbiamo deciso di continuare: oggi, dopo nove anni di attività, abbiamo otto lavori alle spalle ed è già in cantiere il nono. La seconda opera che abbiamo messo in scena si chiamava Stagioni; in seguito siamo passati al varietà con Non solo cabaret, che ci ha subito aperto nuove strade. Infatti siamo stati invitati a presentarlo al Festival Nazionale delle Arti Espressive di Torino, dove i ragazzi hanno cominciato a capire di essere apprezzati e di avere un pubblico. Poi è stata la volta di Tambourine dream, un musical che trae ispirazione dal desiderio di uno degli attori di lavorare sulle musiche di Bob Dylan. Grazie al teatro i ragazzi hanno capito che i sogni si possono realizzare, che si può meglio convivere con le proprie tensioni interne, con i propri conflitti, e migliorare le relazioni con gli altri. Successivamente con Esperando siamo passati al lavoro su Beckett: ho riscritto per la compagnia Aspettando Godot, moltiplicando i personaggi in scena. È stato interessante scoprire i molti aspetti racchiusi in un essere umano per poter accettare le sfaccettature che sono in ognuno di noi e allo stesso tempo sperimentare aspetti sconosciuti della nostra personalità. Da quel momento in poi le cose sono cambiate profondamente: davanti a me avevo uomini e donne che volevano davvero fare teatro. Avevano scoperto una passione e non si dedicavano più all'attività considerandola come arteterapia o semplice animazione, così ho deciso di approfondire con loro le tecniche recitative. L'anno successivo abbiamo messo in scena un nuovo musical sulla chiusura dei centri sociali, che prevedeva anche un ampio coinvolgimento del pubblico. L'opera successiva, ispirata a Pirandello, segna il nostro inserimento nel progetto regionale MoviMenti che, mettendo in rete queste esperienze, ha il merito di allargare il confronto con la società e con il mondo della cultura, rompendo ogni distinzione settoriale. Lo spettacolo che presentiamo al festival DiversaMente di Bologna, Il cortile delle storie sospese, è ambientato in una corte interna in cui le persone si intrattengono le une con le altre raccontando le loro storie. Ci sono immigrati, donne sole, amanti infelici, poeti e sognatori: è un collage di vicende, uno spaccato sociale in bilico tra desiderio e realtà. Il lavoro che facciamo è un lavoro profondo, di ragionamento e riflessione sul mondo che ci circonda. In questo modo il teatro, oltre a essere uno stimolo fisico e artistico, diventa uno strumento di crescita cognitiva».

Quando ha iniziato a lavorare in contesti di disagio?
«Molto presto. Io sono nato nei quartieri disperati di Castellammare di Stabia, città splendida, ma dannata dallo sviluppo urbano dissennato e caotico. Castellammare è la sede di grandi cantieri navali e quindi registra una grande presenza operaia. Io sono cresciuto in una famiglia con otto figli in un quartiere a ridosso del porto; abitavamo in un palazzo fatiscente che era stato un carcere minorile, soprannominato "Il Serraglio". La gente ci indicava come "quelli del Serraglio" e aveva timore di noi. Sono cresciuto in mezzo ai problemi, tra famiglie con genitori detenuti, senza reddito, inevitabilmente esposte alla criminalità. Ho scoperto ben presto una propensione naturale ad aiutare le persone finite sulla cattiva strada; mi sono subito trovato, sin da piccolo, ad essere l'animatore dei gruppi, anche perché ero uno dei pochi a frequentare la scuola, che per me era diventata, anziché una perdita di tempo, un'occasione per raccontare storie e riportare all'interno del quartiere conoscenze e impressioni. Dapprima inconsapevolmente, poi col tempo, ho capito di poter usare questo strumento, non solo per guadagnarmi un certo rispetto, ma anche per aiutare le persone che mi stavano intorno. Altro fattore importantissimo è stato quello legato alla politica, interesse cresciuto col tempo insieme all'impegno sociale nel quartiere e ai primi lavori di sostegno ai disoccupati e ai figli dei detenuti. Da tutto questo nasce la mia passione per il teatro, che parte dalla narrazione e dalla poesia e coniuga il piacere di inventare e raccontare storie con la volontà di risolvere i problemi».

Com'è arrivato poi all'esperienza di Forlì?
«Vivo in Romagna da tredici anni. Sono andato via da Napoli abbastanza tardi, soprattutto per l'impossibilità di sfruttare occasioni valide di lavoro ed ottenere adeguate remunerazioni nel campo artistico per portare fino in fondo i miei progetti. Dopo essermi trasferito, ho fatto alcuni anni di esperienze in vari ambiti, fino a quando non è arrivata la proposta per questo esperimento con i ragazzi di Forlì».

Aveva mai lavorato prima con pazienti psichiatrici?
«La mia prima esperienza risale al 1977, prima dell'approvazione della legge Basaglia, nel manicomio Leonardo Bianchi di Napoli, dov'ero riuscito a ottenere il permesso di fare animazione in alcuni reparti con pazienti meno gravi. A questa sono seguite numerose altre esperienze, come quella all'istituto Tropeano, per il quale partecipai alla lotta per la riapertura».

La prima volta che incontra i pazienti, come inizia a lavorare?
«Prima di tutto mi piace conoscerli. Ovviamente in questo caso occorre vincere tutta una serie di resistenze e di difficoltà comunicative. Da qui, dal racconto delle proprie esperienze, cominciano le prime storie e inevitabilmente nasce il romanzo. Questo mi permette di intervenire direttamente sulla materia, che è quella dell'essere umano: molteplice, difficile, recalcitrante. Dal racconto si passa al percorso fisico del movimento aperto e gioioso. Io credo che solo dopo aver raggiunto una certa libertà e rilassatezza del corpo sia possibile affrontare i temi più profondi. Cerco di creare un clima solare, ludico, in un percorso che va dal respiro alla voce, dal movimento nello spazio alla relazione con gli altri. L'importante è sapere adattare le tecniche - che siano quelle di Stanislavskij o quelle di Boal - alla realtà in cui si vive, mettendoci sempre cuore ed energia».

I suoi attori si occupano anche degli allestimenti scenografici. Quanto conta questo aspetto nel vostro percorso?
«Il teatro non è l'unica attività che abbiamo nel centro. Ci sono una falegnameria, laboratori di arti visive, di pittura. Molti di loro lavorano quindi alle scenografie, ma anche al trasporto e all'allestimento. Io credo che il teatro sia una palestra di vita, già nella fase organizzativa di uno spettacolo. Il pubblico vede il personaggio che entra in scena dal momento in cui supera la quinta. Quello che c'è dal camerino alla quinta è invisibile ed è un lavoro enorme: capacità di auto-organizzazione, tempistica, collaborazione, prontezza. Questo diventa un esercizio di vita per tutti, non solo per qualcuno in particolare. Ecco perché un progetto come MoviMenti è importante: far viaggiare queste esperienze mette alla prova gli attori, li costringe ad adattarsi a spazi e pubblici molto diversi, in modo da ampliare la propria gamma di risposte alle esigenze della vita».

Sono cambiati molto i suoi attori in questi nove anni?
«Moltissimo. Mi ricordo che il primo giorno che li ho incontrate quasi tutti non parlavano, avevano movimenti limitati e sguardi fissi. Gli stessi operatori si sono meravigliati del cambiamento. Questo è un aspetto impagabile del lavoro».

Durante la sua lunga esperienza che reazioni ha potuto osservare nel pubblico che assiste ai suoi spettacoli?
«Per quanto riguarda l'atteggiamento diffuso riguardo alle differenze di ogni tipo, il teatro diventa uno strumento per scardinare il pregiudizio. Anche i parenti e gli amici che assistono a questi spettacoli rielaborano completamente il rapporto che hanno con queste persone. Le vedono improvvisamente capaci di coinvolgere ed emozionare un'intera platea: questo sgombra il campo agli equivoci, ponendo l'utente-attore in una posizione completamente differente e rafforzando la sua autostima. Il pubblico scopre qualcosa di magico. Se la prima paura dell'uomo è quella della morte, la seconda è sicuramente quella del confronto. Chi assiste a questi spettacoli scopre che tutti sono capaci di superare questa paura. Questo messaggio vince anche laddove esiste il pregiudizio e ha una ricaduta nella vita concreta. Io penso che l'arte sia un percorso propedeutico a tutti i cambiamenti sociali».

Alessandra Cava

LE ALLUCINAZIONI CHE FANNO TEATRO

da una conversazione con il Regista Nanni Garella

Abbiamo incontrato Nanni Garella, per caso a Bologna tra una piazza e l'altra della sua tournée con Platonov (produzione dell'Arena del Sole in collaborazione con Ert).
Non vuole parlare di sé il regista. Il tempo che può dedicarci vuole spenderlo per informarci sulla miracolosa avventura di Arte e Salute, una compagnia stabile di attori, formata dagli ospiti del Dipartimento di Salute Mentale Ausl di Bologna, che lui dirige.
Ci racconta di quando trent'anni fa, con alcuni amici psichiatri, tra cui Filippo Renda e Ivonne Donegani, fantasticavano sulla possibilità di creare una compagnia stabile formata da ragazzi con disagio mentale. All'epoca non avevano le possibilità, né i mezzi, per realizzare il loro sogno.
Vent'anni dopo, nel 1999, si rincontrano. Sono diventati dei professionisti affermati e riconosciuti, e forse adesso potranno permettersi di dare vita a quel progetto.

Decidono di iniziare, quello stesso anno, un corso di formazione con lo scopo di creare una compagnia teatrale composta da pazienti psichiatrici: "L'idea originale era di evitare di fare teatro terapia, percorsi interessanti ma che rimangono all'interno di una cura".
Il loro obiettivo era quello di dare a queste persone degli strumenti tecnici, validi per poter lavorare come professionisti. Ci sono riusciti. Questi attori ormai da sette anni vengono scritturati per mettere in scena degli spettacoli. Proseguono anche un lavoro di formazione permanente nel quale sono stati inseriti, negli anni, anche altri pazienti. Il nucleo primario tuttavia è rimasto sempre lo stesso, un segno evidente che le attività svolte da Nanni, e dai suoi collaboratori, hanno funzionato bene. "I nostri ragazzi, che vanno dai 25 ai 50 anni, hanno raggiunto una grande maturità, prima che artistica, umana. Si sono riappropriati di un pezzo di vita che gli era stato strappato. Hanno potuto continuare il percorso interrotto con l'inizio della loro malattia che solitamente si presenta nell'adolescenza, quando si arrestano percorsi di studio, rapporti d'amore, rapporti familiari. A loro non fa bene fare il teatro, gli serve solo avere un impiego che significhi responsabilità, guadagnare dei soldi, potersi affrancare quindi dalla dipendenza da famiglie o da sussidi pubblici. Riescono così a vedere la loro vita con altri occhi, hanno delle prospettive, ora".

Questo risultato è dato dal fatto che applicano alla lettere il principio secondo il quale i malati di mente, i pazienti psichiatrici, sono uomini e donne disagiati che possono riuscire a convivere con la propria sofferenza, come chi ha un'altra patologia, come un diabetico: "Vivono compatibilmente con la loro malattia. Basaglia ha toccato un elemento fondamentale per far sì che questo processo avvenga, cioè il lavoro. Il teatro semplicemente facilita questo processo perché ci sono gli applausi, i riconoscimenti, il successo, il calore del pubblico".

Con i suoi attori Nanni si rapporta come con qualsiasi altro professionista, l'unica differenza metodologica sta nel maggior tempo che spende per il lavoro di drammaturgia. Cerca di far rivivere la nascita del testo, le ragioni, lo studio dei personaggi, per consentire un aggressione e una memorizzazione più spontanea. Arte e Salute è una compagnia che oggi riesce a produrre uno spettacolo nell'arco di due mesi, come qualsiasi altro gruppo.
"Gli attori hanno una grande capacità di immedesimarsi nel personaggio, dovuta dal fatto che sono abituati, a causa del loro disturbo e della psicoterapia, a scavarsi dentro in profondità. Una scoperta dei testi, delle drammaturgie, dei personaggi, che avviene quasi sempre attraverso quella strana conoscenza che è il processo allucinatorio, tipico delle loro patologie. Usare queste allucinazioni per avere delle intuizioni. Anche Pirandello soffriva di allucinazioni ed è risaputo che attraverso le allucinazioni sono nate opere d'arte di grosso rilievo in tutte le parti del mondo. Una delle forme specifiche della conoscenza della realtà attraverso l'arte è proprio un processo allucinatorio".
In primavera presenteranno, sul palcoscenico dell'Arena del Sole di Bologna, tre atti unici di Pinter: Il bicchiere della staffa, Il linguaggio della montagna e Party time. Sono quelli più duri, più politici, più forti. Aprono le porte di un mondo di violenza, di reclusione, di sopraffazione, di dittature. Secondo il regista, gli attori di Arte e Salute riusciranno perfettamente ad inscenare Pinter: "Perché loro, quando si tratta di dare spessore di realtà a delle situazioni, sono impareggiabili. Diventano pasoliniani quando fanno Pasolini, pirandelliani quando fanno Pirandello, Shakespeariani quando fanno Shakespeare...".

Prima di lasciarlo ai suoi impegni, gli chiediamo di raccontarci un episodio, un aneddoto, che possa riassumere i dieci anni di attività con la compagnia:
"Quando abbiamo lavorato per mettere in scena Vita di Galileo di Brecht, bisognava anche far capire ai ragazzi quali erano state le scoperte di Galileo, su cosa lavorava. È facile dire che la terra gira intorno al sole, o parlare dell'universo così, tanto per parlare. Queste cose molte persone le ignorano, non è che non le capiscono. Mirko, che è il più piccolino dei nostri attori (è arrivato che era un ragazzino), faceva la parte di Andrea Sarti, l'allievo di Galileo. Una sera mi chiese: Nanni scusa, ma la terra gira intorno al sole ancora oggi? Ho capito in quel momento che se riuscivo a spiegare a Mirko che la terra sì, gira intorno al sole, l'avrebbe capito anche il pubblico. Questo lo dico perché, a parte la frase divertente che può uscire solo dalla bocca di Mirko, è attraverso il loro sguardo e le loro domande che alle volte ripenso alla natura del teatro, dei personaggi, alla sostanza dei testi, a quello che dicono. Troppo spesso facciamo le cose meccanicamente, senza capirne il senso. Invece le persone che hanno delle forti difficoltà, dei malesseri di fondo, anche le persone fisicamente disabili, ragionano in un altro modo perché fanno più fatica, ma nel fare più fatica si pongono delle domande che noi non ci poniamo, portandoci quindi a fare delle digressioni, andando in strade sconosciute che vanno fuori dalla nostra quotidianità, boschi e foreste lontane dove loro scoprono delle cose che poi spesso ci raccontano. Noi il più delle volte non ci crediamo, ma loro le vivono davvero. In realtà il loro sguardo è un sguardo interrogativo, assolutamente ingenuo, però molto penetrante sugli oggetti della realtà. Per l'arte questo è importantissimo perché significa focalizzare i punti su cui bisogna lavorare, le cose che bisogna far venire fuori. Insomma badare alla sostanza e poche chiacchiere!".

Antonio Raciti